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Javier Zanetti

Ultimo Aggiornamento: 09/05/2023 05:44
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06/05/2023 11:36
 
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Una delle ultime bandiere di un calcio ormai scomparso.
Dopo aver letto un commovente articolo dedicato a lui su Repubblica ho pensato che ci volesse un topic su c'era una volta.

 
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da Repubblica.it
Per noi interisti (e non solo) Javier Zanetti, si perdoni l’eco di una pubblicità da boomer, vuol dire fiducia. E la fiducia è una cosa seria. “C’è sooolo un capitaaano”, canta lo stadio. E quel capitano è lui. L’erede dell’amatissimo capitano Giacinto Facchetti, simbolo della grande Inter di Helenio Herrera. Uomini della trincea, che reggono i colpi avversari, e partono al contrattacco.

In molti sostengono che il calcio sia una metafora della battaglia, chissà, più probabile che il gioco del calcio sia una metafora della vita agra degli umani, perché vite in cui tutto va benissimo o tutto va malissimo sono molto rare, un po’ si vince e un po’ si perde e se ci si annoia un po’, come succede in ogni campionato, molto importante è restare in campo e saper lottare da professionisti.

In ogni caso, domandando scusa ai tifosi di altre squadre se incorrerò in qualche modesto eccesso, bisogna qui enunciare alcune caratteristiche dell’Inter moderna, quella che fa cantare sillabando un baritonale e convinto “C’è solo l’Inter” all’intero stadio.

La prima caratteristica: non siamo mai andati in serie B. Può piacere, non piacere: è un dato di fatto. Abbiamo affrontato campionati pessimi, rischiato, sbagliato, siamo crollati quando eravamo sicuri di vincere e la disperazione ha invaso i nostri cuori (nerazzurri). Ci siamo però sempre salvati. Abbiamo una storia calcistica pulita. L’Inter è dignità.

Seconda caratteristica, i Moratti. La squadra è rinata negli anni del boom economico sotto lo scudo protettivo di una delle più facoltose famiglie milanesi. Petrolieri e non solo, hanno sempre avuto un occhio al Dna della squadra, che è Internazionale, e non serve aggiungere altro. Il precursore Angelo Moratti ha costruito ad Appiano Gentile un campo d’allenamento all’avanguardia e vinto tutto. I suoi successori italiani, anzi milanesi, dai coniugi Fraizzoli a Ernesto Pellegrini, hanno mantenuto alta l’asticella non solo nello stadio, ma fuori da San Siro. L’attenzione al sociale è una sorta di marchio interista e con l’arrivo di Massimo Moratti, figlio di Angelo, è diventato un marchio globale. L’Inter è generosità.

Terzo punto, che deriva dai precedenti. Ci sono interisti che sul “pazza Inter” si trovano a loro agio. Ci sono interisti che sono epigoni dello “sconfittismo”: perdiamo sì, ma perdiamo bene. Ci sono tra costoro interisti singolarmente apprezzabili, ma forse non capiscono quanto si rendano sgradevoli alla pancia e al cuore dei “veri interisti”. Se vinciamo contro il Milan all’ultimo secondo del recupero dopo una pessima partita siamo felici, più che se avessimo dominato. Se vinciamo contro la Juve su rigore, è festa sino a tardi.

Amiamo “pazzamente” i geni che sanno far girare il pallone, da Mariolino Corso a Recoba, da Ronaldo a Eto’, ma ci sentiamo vicini ai Picchi, ai Facchetti (molto simile nel ruolo di bandiera a Zanetti), ai Burnich. A quei campioni-operai che non erano solo campioni, ma avevano comportamenti da combattente olimpico, capaci e leali, dignità e generosità interiste dentro e fuori dal campo. La vera squadra nata nel 1908 da una costola del Milan è fatica e colpi d’ala, all’insegna del mondo aperto.

E Javier Zanetti – veniamo finalmente al punto, scusateci, ma bisognava essere chiari, perché non siamo tutti uguali nelle storie delle maglie - sta proprio in questo canestro ricco di intrecci nerazzurri sociali, storici, sportivi, passionali. Insomma “siamo solo noi”. E se non si guardano queste antiche radici, si comprende meno come mai Javier Zanetti, con le sue cosce da cavallo da soma, la testa da statua romana, le mani da lavoratore, il sorriso mai spavaldo, a volte a denti stretti, a volte con gli occhi ridenti, sia diventato il nostro Zanetti.

Oltre al suo tenere la palla incollata al piede, oltre al suo essere insuperabile difensore, oltre ai gol conquistati partendo da lontano, Zanetti è l’interista che arriva al posto giusto al momento giusto. La sua bandiera inizia a sventolare nell’Inter di Massimo Moratti (il ritorno tanto atteso dei Moratti): è un’Inter in crescita e in decrescita, questo giovane massiccio sbarca a Milano dall’Argentina e allora in panchina si accucciava il corrucciato Roy Hodgson. L’anno dopo sarebbe arrivato l’onesto secchione Luigi Simoni, poi venne il turno di Marcello Lippi con la puzza sotto il naso (mugugni sugli spalti) e dell’omerico Marco Tardelli (rispetto per il Mundial ’82 e la sua bravura), finché, nel turbine di allenatori e giocatori che entrano ed escono per volere del presidente in cerca di una vittoria che sia proporzionata ai soldi che spende, il ruolo di stratega tocca al taciturno cowboy Hector Cuper: è lui l’allenatore che, nel 2001, affida a Zanetti la fascia del capitano.

Era in prospettiva quello – noi interisti ne portiamo ancora la cicatrice - il campionato del tanto atteso scudetto: lo scudetto del merito e della costanza, lo scudetto con l’intelligenza degli elettricisti, il premio che doveva e poteva tenere insieme Zanetti e Ronaldo, l’operaio di talento e il genio da “pazza Inter”. Finché, ampiamente in testa al Campionato, arriva il 5 maggio del 2002, il fatale 5 maggio, la giornata conclusiva: l’Inter va a Roma e perde 4 a 2 con la Lazio. Addio allo scudetto, sconfitta epocale, sfottò dovunque in Italia, specie a Milano, con lo stadio che ribolliva di rossoneri festanti per la sconfitta dei bauscia.

Ora, proprio qualche giorno fa a Sondrio, parlando agli studenti delle scuole, l’ex maglia numero 4 ha spiegato un concetto che è molto interista. Ha detto che senza quella sconfitta bruciante non ci sarebbe stato il triplete del 2010. Senza la caduta non ci sarebbe stata la resurrezione. Senza il buio del baratro, nessuna felicità del volo.

Mentre si susseguivano come allenatori anche il sornione Zaccheroni e il prode Mancini, a tenere insieme la squadra in campo e nello spogliatoio era sempre capitan Zanetti. Ed era lui il filo teso tra gli spalti e il campo di gioco. Ha numeri impressionanti. E’ lo straniero con più presenze in serie A, è il giocatore con più presenze nell’Inter, il più vincente della storia dell’Inter (5 scudetti, 4 coppe Italia, 1 coppa Uefa, 1 coppa dei Campioni, 1 coppa del mondo per club), il capitano con più partite in coppa dei Campioni.

A queste informazioni, che ognuno può trovare in rete, bisogna aggiungerne altre due. Una, in Argentina, prima di andare a scuola, o ad allenarsi, al mattino presto tra le 4 e le 8 vendeva il latte, accompagnato da un parente. Due, con la moglie Paula ha fondato “Pupi”, un’organizzazione no-profit che fa arrivare alle famiglie disagiate nella zona di Buenos Aires non pochi aiuti.

Se nel 2014 s’è ritirato dai rettangoli verdi, nessuno s’è stupito quando è diventato vicepresidente di un Inter che tra Erick Tohir e la famiglia Zhang, con Simone Inzaghi adesso in panchina, aveva e ha la necessità di restare credibile e di poter sognare. C’è un sogno imminente del quale non si parla, e non ne parleremo certo noi, ma è un sogno che si fa da svegli: e da proprio svegli, nella trincea nella quale serve difendersi, come nel territorio sconosciuto nel quale si parte all’attacco, la regola è avere accanto uno del quale fidarsi.

Non sempre uno così lo si trova nella vita vera, anzi nella vita vera il tradimento e la vigliaccheria sono, anche se nessuno ci avverte prima, una costante. Ma nella vita metaforica del calcio, Zanetti è “quello”: è l’amico fidato, quello che ha esperienza, che ce l’ha fatta tante volte, che ha conquistato tutto, e non ha perso mai del tutto.

Se al Milan c’è il bravissimo, anzi l’eccezionale Paolo Maldini, che appartiene alla nobiltà del calcio e da leader della difesa è diventato un dirigente di grande carisma, da noi c’è la carriera parallela di Zanetti, uno che s’è sudato la scalata partendo da un campo di calcio costruito dagli abitanti di un quartieraccio senza niente per dare un po’ di spazio ai figli e toglierli da altre tentazioni. Il nostro capitano racconta, come cantava De André, che “dal letame nascono i fior”. Insomma Javier Zanetti, purissima incarnazione nerazzurra. Lo spirito mondiale dell’Inter fatto persona, calciatore e “milanese”. Il campione della porta accanto.

 
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06/05/2023 16:21
 
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Niente da ridire sul campione e sull'uomo...
..ma mi sembra appartenere più al XXI secolo che al XX.

 
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Fonte di saggezza
07/05/2023 21:10
 
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E non solo.........................


 
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Storia Pura
09/05/2023 05:44
 
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Parablas!!!
Per quanto riguarda Zanetti, come ha gia' fatto notare Cariatide, appartiene piu' a questo secolo che a quello scorso. Ma va anche detto che era un tipo di giocatore e di "Hombre" da anni 60/70.
Inoltre essendo entrato a far parte dell'Inter nel 1995...possiamo chiudere un occhio [SM=g27988]

 
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